3 giugno 2015
5 luglio 2013
24 giugno 2013
Come restare sempre indietro un giro
Pubblicato da
Giorgio Jannis
Aggiungo solo una cosa: la frase finale "la priorità è una sola: fibra più WiFi" è sacrosanta. Poi le lavagne possono essere realizzate con sistemi artigianali vd. Wiiboard o simili, al costo di 100€ anziché 2000, e vanno promosse iniziative ministeriali per l'acquisto da parte di insegnanti e studenti di ebook reader (diciamo 50€) e di tablet (diciamo 150€). Poi vanno promossi i testi scolastici in formato ebook, fatti bene, non vendendo pdf.
E prima di tutto questo servirebbe una formazione agli insegnanti in grado di renderli banalmente Cittadini digitali, e conseguentemente insegnanti moderni.
Anni fa al Cefriel montammo una delle prime lavagne interattive arrivate in Italia. Dopo qualche anno la sostituimmo con uno schermo LED. Non so più nemmeno dove l’abbiamo messa. Sono anni che non la usiamo più.
Una mia amica fa l’insegnante elementare. Mi dice che nei prossimi giorni le daranno una di queste lavagne. In aula non ha WiFi né una connessione fissa. Hanno alcuni PC connessi in rete solo in una stanza della scuola. Però danno loro la lavagna.
Ricordo quando oltre dieci anni fa assistetti ad una riunione con l’allora ministro dell’istruzione Berlinguer che voleva a tutti i costi dare la connessione ad Internet "ai miei insegnanti". Lo disse con il cuore. E ricordo la penosa risposta di uno dei capitani della nostra industria ICT che ne sapeva meno del ministro e che proponeva come soluzione delle ciofeche inusabili.
Passano gli anni, nulla cambia. Siamo sempre un giro indietro. E lo siamo perché ciò che determina le nostre azioni come paese è un misto di incompetenza, malafede, stupidità e insipienza.
L’ho scritto varie volte e ripetuto anche a Francesco Caio nei giorni scorsi. Per la scuola la priorità è una sola: fibra più WiFi. Dopo parliamo del resto.
Fonte: Alfonso Fuggetta
23 maggio 2013
Si è rotta la scuola
Pubblicato da
Giorgio Jannis
«La nuova cultura», scrivevo qualche giorno fa deve essere ancora codificata e distribuita dal centro (quello che la fa) alle periferie (quelle che devono imparare a viverci dentro)».
Il problema è che il centro, oggi, se vogliamo, non è più l'Istituzione o l'industria culturale, ma quello spazio indefinito in cui l'innovazione lavora a ritmo incessante per cambiare il modo in cui la nostra cultura sta funzionando.
E l'Istituzione, il sistema educativo che dovrebbe insegnarci anche la contemporaneità, non fa in tempo a sistematizzare e distribuire le nuove competenze di information literacyche oggi fanno parte dell'alfabetizzazione di base.
Io cito spesso un video famoso che in poche parole descrive benissimo la situazione: «stiamo formando studenti per lavori che ancora non esistono e che useranno tecnologie che non sono ancora state inventate». Brutale, ma efficace.
Negli Stati Uniti, però, nel mondo dell'istruzione stanno accadendo parecchie cose. Intorno ai MOOC (ne avevo scritto tempo fa sull'Espresso di carta) si sta sviluppando una discussione molto interessante.
Le conclusioni sono lontane, ma c'è abbastanza da leggere. «Il nostro sistema educativo», scrive Neeven Jain su Forbes, «magari non è rotto, ma sicuramente è diventato obsoleto». E propone un lungo ragionamento su cui vale la pena riflettere.
Il titolo è: Creating Adaptive, Personalized, Effective and Addictive Education System for the Next Century.
Poi c'è un altro pezzo interessante, di Paul Champion. Anche Paul frantuma il bersaglio su una riflessione più urgente e necessaria. «È sorprendente», scrive citando Daphne Koller, «come ancora stiamo insegnando agli studenti le cose nel modo che abbiamo usato negli ultimi 300 anni».
Leggi tu stesso e fatti un'idea: The End of Education As We Know It.
Io non ho un'opinione definitiva, ma posso metterci i miei due centesimi. Resto convinto che, su buona parte del cambiamento che stiamo vivendo, la responsabilità della comprensione torni sull'individuo. E non è facile.
Ma è ancora meno facile se pensiamo ai giovani e a come vengono formati. Difficilmente il sistema scolastico e universitario li formerà sulla cultura digitale e ancor più difficilmente li renderà competitivi nel mondo del lavoro del XXI secolo.
Il rischio è che alla fine si crei un forte dislivello tra una maggioranza mediamente disinformata e coloro che hanno una famiglia alfabetizzata (che sa quindi istruirli e dar loro la giusta mentalità) o che incontrano qualche insegnante illuminato.
C'è un problema profondo di design strutturale del sistema educativo in un mondo che è cambiato e continuerà a cambiare. Ma l'istruzione resta cruciale e probabilmente anche in Italia -guardando a ciò che accade negli USA- si dovrebbe provare ad alzare l'asticella del dibattito e, magari, ricominciare a investire sui giovani cambiando anche qualche paradigma.
25 marzo 2013
3 marzo 2013
27 febbraio 2013
Da UdineSmart a PotenzaSmart
Pubblicato da
Giorgio Jannis
Una sorta di passaggio del testimone, un resoconto dell'esperienza realizzata a Udine nei primi giorni di dicembre 2012, per contribuire con qualche idea al convegno PotenzaSmart.
L'articolo è apparso sul sito del convegno lucano, qui www.potenzasmart.it/non-ce-smart-city-senza-smart-community/
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“Da udinesmart a potenzasmart, con tanta simpatia”.
Giorgio Jannis, coordinatore comitato tecnico-scientifico #udinesmart, ci racconta l’esperienza fatta da loro.
“Non c’è smart-city senza smart-community” è stata la sintesi in forma di slogan emersa dal primo barcamp tenutosi a Udine nel 2011 sulle tematiche dell’innovazione tecnologica e dei nuovi approcci della comunicazione pubblica nella Pubblica Amministrazione.
Quel convegno informale (il modello “barcamp” si presta perfettamente a incontri pubblici contraddistinti dalla libera proposizione di idee e di suggerimenti da parte della comunità dei portatori di interesse) fu caratterizzato da una notevole partecipazione spontanea da parte di cittadini, professionisti e operatori culturali; al di là dei preziosi contributi alla riflessione collettiva si è potuta in tal modo costruire una solida rete relazionale tra persone e realtà territoriali pubbliche e private orientate all’innovazione urbanistica e alla diffusione delle nuove forme di e-partecipation a finalità civica.
Partendo proprio dall’esperienza del 2011 il Comune di Udine ha promosso nel dicembre 2012 il convegno#udinesmart articolato su due giorni e tre diverse location tematicamente connotate, per offrire alla cittadinanza un resoconto delle iniziative smart promosse dalla Pubblica Amministrazione locale, e al contempo sollecitare nuovamente la cittadinanza a partecipare in moto attivo alla progettazione collaborativa della Udine del ventunesimo secolo.
Il Comune di Udine per voce dell’Assessore all’Innovazione ha illustrato il successo del sistema e-Part, mappa interattiva per la segnalazione da parte dei cittadini delle problematiche urbane riguardanti a esempio la viabilità o l’arredo urbano, e contestualmente è stata annunciata la realizzazione in partnership con Telecom di una rete di connettività in fibra ottica FTTC di nuova generazione, che permetterà entro quest’anno una navigazione internet a velocità di 50Mb/s per imprese e cittadini (ben oltre le indicazioni dell’Agenda digitale europea, 30Mb/s entro il 2020), abbattendo i costi e riducendo l’impatto ambientale dei lavori grazie all’utilizzo delle infrastrutture fognarie.
È da segnalare inoltre per la sua rilevanza di dimensione nazionale la presentazione insieme a Riccardo Luna e Vittorio Alvino del sito web OpenUdine grazie al quale Udine è diventata la prima città italiana totalmente trasparente nei suoi processi amministrativi e direttamente monitorabile dai cittadini, secondo la filosofia OpenMunicipio, in direzione di un e-government efficiente e una e-democracy efficace.
Al nuovo museo cittadino di arte moderna si è tenuto #udinesm.art, dando appunto possibilità al fiuto degli artisti e degli operatori culturali locali di “fare il punto” e proporre riflessioni creative sui processi innovativi dell’abitare il territorio ora innervato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mentre presso le strutture cittadine di Friuli Future Forum della Camera di Commercio si è tenuta una tavola rotonda sul futuro del giornalismo 2.0, presenti direttori e responsabili di quotidiani locali e giornalisti di fama nazionale, per ragionare sui meccanismi editoriali moderni dell’informazione e della pubblica opinione.
La comunicazione dell’evento si è avvalsa anche dei media tradizionali nella consapevolezza che l’alfabetizzazione alla Cultura digitale, soprattutto nei suoi aspetti di partecipazione civica, deve intervenire laddove risulta meno diffusa, a esempio tra le fasce della popolazione tuttora ancorate al mezzo televisivo quale unica fonte di informazione. Sono state realizzate nove puntate (pillole della durata di sette minuti) del programma televisivo “Non è mai troppo digital” trasmesse da emittenti locali a cavallo dell’evento #udinesmart, per la sensibilizzazione alla tematica della smart-city e delle potenzialità offerte dalla rete internet alle pratiche quotidiane dell’abitare in territori connessi.
Una città è un hardware fatto di infrastrutture tecnologiche (connettività a banda ultralarga, wifi cittadino, sensoristica) su cui “gira” un software costituito dalla collettività che risiede su quel territorio, dai suoi comportamenti mediatici, dallo stile peculiare della sua partecipazione alla conversazione su temi di natura civica o amministrativa. Il convegno #udinesmart è riuscito a mettere in luce entrambi gli aspetti, promuovendo consapevolezza nella popolazione sui cambiamenti tecnosociali che portano ora a definire le città come “intelligenti” in quanto ottimizzate dalla tecnologia di connettività nella produzione e distribuzione di merci energia e informazione, in quanto capaci di offrire luoghi di socialità digitale per la comunicazione pubblica ove i cittadini possano partecipare in modo consultivo o decisionale all’amministrazione della cosa pubblica.
3 febbraio 2013
La scuola vista da Londra, Marte.
Pubblicato da
Giorgio Jannis
Fonte: Year 0 P.S.
Mi capita, non abbastanza spesso, di prendere un aereo per andare a vedere come altri cercano di rispondere alle domande che mi faccio, più o meno quotidianamente. In questo caso la domanda è: “di che tipo di scuola hanno bisogno le mie bimbe?”.
Ho scelto il BETT a Londra, formerly known as the British Educational Training and Technology Show, ovvero una fiera sulla tecnologia nell’education inaugurata nel 1985 (millenovecentoottantacinque): un posto strano, dove ci sono migliaia di scuole che acquistano (ACQUISTANO) tecnologia, dove i responsabili scolastici dei VLE (Virtual learning Environment) cercano nuove soluzioni, dove le Università si confrontano attivamente sui MOOCS.
Si, lo so, il paragrafo precedente non è semplice per un lettore italiano: sarà che noi siamo abituati alle note scritte a mano sul diario, alle bacheche, al flauto, al laboratorio di informatica (per i più fortunati) dove si impara a schiacciare una tastiera. Sarà che da noi gli strumenti sono salvifici, e basta installare una LIM (la lavagna digitale) per sentirsi proiettati nel futuro; sarà che troppi dirigenti pubblici ancora pensano che comprare un po’ di tablet conferisca un titolo di modernità.
Un rappresentante del Governo inglese, certo non giovane ma straordinariamente competente, ha detto con chiarezza che l’education è la priorità: e ha detto che occorre formare gli insegnanti per avvicinarli anche ad un mondo del lavoro dove già si usano nuove tecnologie e nuovi modelli. Poi è arrivato un giovane, straordinariamente competente, che si occupa di valutare l’adozione di nuove tecnologie in tutti i settori pubblici del Regno Unito, ed ha intrattenuto la platea sui modelli che rendono più efficienti le attività di apprendimento.
Sia chiaro, non è la tecnocrazia ad affascinarmi: una buona scuola è fatta di bravi maestri, appassionati, dedicati ai loro studenti. Però, spesso, la passione è direttamente proporzionale all’attenzione che uno riceve, agli strumenti che vengono messi a disposizione, al riconoscimento sociale. Ecco, al BETT tutto è dedicato all’insegnante, metà dell’audience era fatta da insegnanti venuti per confrontarsi, imparare, chiedere; e non in una triste aula magna con un burocrate ministeriale, ma in un confronto con grandi innovatori, studiosi, professori.
Io non avevo mai visto una responsabile ICT di una scuola, peraltro donna e poco più che trentenne: una che ci ha spiegato come tutte le attività suBlackboard inaugurate una decina di anni fa siano oggetto di una profonda revisione, che segue una metodologia oramai consolidata di confronto con il corpo docente, gli studenti e le novità sul mercato. Per inciso ha detto, sorridendo, che la sua maternità ha determinato un aumento del lavoro per tutti i colleghi, determinati a partire quanto prima con strumenti più efficienti.
Poi ho incontrato anche qualche rockstar, come Daphne Koller di Coursera, una professoressa di Stanford che ha portato a frequentare corsi universitari online 2,5 milioni di studenti da 123 paesi del mondo. Ecco, Daphne ha affrontato, molto bene perché è tostissima, un vivace contraddittorio con insegnanti, professori, digital manager di università, maestri-blogger: gente preparata, consapevole, contemporanea.
Ecco, quello che mi colpisce è la normalità, la consuetudine con queste materie: il BETT è parte di un sistema, non è un folkloristico raduno di visionari ma un passaggio obbligato per l’attività di migliaia di formatori. L’industria inglese dell’education è florida, le scuole investono, il dibattito pubblico è continuo: con tutte le posizioni, contraddizioni e difficoltà che il tema comporta, la tecnologia non risolve ma, se ben usata, aiuta.
La normalità: è normale per dirigenti pubblici venire qui, per le scuole adottare sistemi gestionali moderni, per i bambini usare le tecnologie che li circondano. E ne ho visti molti di bambini, ovviamente quelli delle scuole più capaci e più attente: venivano a ritirare dei premi, tutti felici per aver creato la migliore applicazione, un software utile alla comunità. Un po’ di demagogia, un po’ di competizione tra scuole, ma tutto mi sembrava comunque stupendo, ubriacante; lo so, poi riflettiamo anche sul modello sociale, sulle scuole elitarie, sulle sperequazioni etc. etc. Ma davvero possiamo continuare a non fare nulla, procrastinare, prendere tempo? Non dovremmo, forse, prendere il (tanto) buono che c’è altrove e trovare un senso nostro, riflettendo sui rischi di confondere “educazione” e “conoscenza”, sui rischi di omologazione dell’insegnamento, sulle troppe spinte alla creazione di fabbriche in batteria di iperspecialisti per le aziende?
Non ho risposto alla mia domanda, ma ho qualche idea in più: io vorrei per le mie figlie insegnanti appassionati, consapevoli del mondo che sarà e capaci di prepararle alle novità. Vorrei che insegnassero loro il meglio del passato con modalità e strumenti contemporanei, e vorrei che una delle mie figlie mi dicesse, sognante, “io da grande voglio fare la maestra, come mia nonna”.
Perché mia madre è stata una straordinaria maestra, che a tre anni dalla pensione, una decina di anni fa, mi chiese di comprarle un computer e di spiegarle qualcosa: “posso non capire quello che fanno a casa i miei studenti?” Sarebbe venuta volentieri con me tra gli stand del BETT, a farsi fermare ogni dieci metri da venditori di software che, speranzosi, chiedono “Tu fai il maestro, vero?”.
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