25 settembre 2008

L' economia ai tempi del web

L' economia ai tempi del web
di GIORGIO RUFFOLO
Repubblica — 07 agosto 2008

L' impatto delle tecnologie cosiddette digitali sulle relazioni sociali e in particolare lo sviluppo prodigioso del fenomeno Internet sono oggetto ormai da tempo di una intensa attenzione. Non altrettanto e stranamente, almeno nel grande dibattito pubblico, il loro carattere specificamente economico, che riguarda in particolare le implicazioni della «economia digitale» sul mercato, cioè sul sistema economico largamente dominante nelle economie capitalistiche del nostro tempo.

Si da in genere per scontato che il vendere e il comprare su Internet, non solo sia in accordo con la natura e le regole del mercato, ma ne rappresenti una esaltazione. Questa è almeno l' opinione espressa dalla corrente di economisti americani cosiddetta «californiana», secondo cui la rete costituisce l' istituzione che incarna concretamene l' altrimenti astratta teoria della concorrenza perfetta che sta alla base del credo liberista, escludendo lo Stato da ogni possibile interferenza nel suo funzionamento.
Ora, una analisi non fortemente intrisa da motivazioni apologetiche dovrebbe portare a conclusioni opposte: che sono infatti sostenute da altri economisti (per esempio, quelli del Centro Hypermedia dell' Università di Westminster, che fa capo a Richard Barbrook). Si fa notare che l' esplosione della rete, nonché esaltare la logica del mercato, ne mina alcuni presupposti essenziali e per converso apre nuove prospettive a una economia della reciprocità, libera dai vincoli sia del mercato che dello Stato.

Nel caso di Internet si verifica una condizione ben nota agli economisti, di produzione di beni non esclusivi che possono essere utilizzati simultaneamente da più utenti: un classico bene pubblico.

Inoltre, il bene prodotto (l' informazione) a differenza di un bene fisico, non si separa dal produttore (come si dice: se ci scambiamo un dollaro, restiamo con un dollaro; se ci scambiamo un' idea restiamo con due idee). In tali condizioni, è assai difficile esigere un prezzo.
Il problema è stato risolto in questi casi con i canoni di abbonamento. Il produttore fornisce un servizio e riceve un canone standard, indifferenziato.

Ma che succede se l' utente del servizio diventa a sua volta fornitore «scaricando» l' informazione dalla rete e vendendola o regalandola in concorrenza col produttore? Nel caso Internet proprio questo succede. Ciò provoca danni ingenti ai fornitori del servizio, contraendo le entrate pubblicitarie. Per evitarli, essi non possono far altro che ricorrere alla legge: alla polizia e alla magistratura, il che rende manifesta la dipendenza del mercato dallo Stato, la falsità della sua pretesa «autoregolazione».

Ma poiché è molto difficile accertare le violazioni da parte dei «free riders» (dei parassiti di Internet) emerge la proposta di istituire un sistema di spionaggio permanente detto Panopticon (in memoria della famosa proposta di Jeremy Bentham) che permetta di controllare permanentemente tutte le operazioni degli utenti. Ecco un divertente esempio di regolazione staliniana del mercato autoregolato.

Esiste, fanno notare gli economisti di Hypermedia, un' alternativa. Lo Stato assume il compito di fornire l' infrastruttura della rete Internet che non è più finanziata dalla pubblicità (col beneficio di una diminuzione dell' inquinamento dovuto alla contrazione dei consumi «indotti» da quella); ma dalle tasse, che la collettività decide democraticamente di pagare per massimizzare il bene pubblico dell' informazione. In tal caso non esiste più un problema di free riders. La libera circolazione dell' informazione fornita dalla rete, anziché costituire un danno per i fornitori privati, soddisfa pienamente lo scopo del fornitore pubblico.
Si apre un nuovo spazio dove allo scambio valorizzato (informazione contro pubblicità) subentrano prestazioni reciproche gratuite. Economia del dono? No, non c' è nessun dono. C' è la decisione della comunità di trasformare il valore di scambio dell' informazione in valore d' uso, affidandolo alla libera gestione della comunità stessa: né allo Stato, che si limita a fornire l' infrastruttura, né al mercato.

Il lato più interessante di questa riforma non sta solo nel rendere possibile la libera fruizione dell' informazione contenuta nella rete, ma di promuovere l' aspetto più innovativo di Internet: la partecipazione attiva dell' utente allo sviluppo dell' informazione. Contribuendo alla creazione di nuova informazione, egli non è più un consumatore passivo, ma un produttore attivo di idee: un prosumatore (prosumer), come con geniale anticipazione lo definiva Alvin Toffler.

Internet sta producendo una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro e della produzione generando una nuova classe di lavoratori-imprenditori che non esalta il momento dello scambio valorizzato ma quello della libera creatività.

E' bene che queste idee circolino liberamente senza essere protette da copyright. Le prestazioni effettuate sulla rete non sarebbero soggette ad alcun vincolo di proprietà riservata (copyright). I soli limiti riguarderebbero la sicurezza e la moralità. Ma in quei casi si tratta di perseguire casi concreti e manifesti, e non capacità potenziali e diffuse di violazione delle regole.
Come Richard Barbrook osserva, non si tratta affatto di sostituire il mercato e lo Stato con una economia caratterizzata dal principio della reciprocità, ma di integrare economia di mercato, economia amministrativa ed economia digitale in un sistema più ampio e articolato. Lo Stato fornirebbe l' infrastruttura, il mercato promuoverebbe le innovazioni tecnologiche, per esempio sviluppando la griglia delle fibre ottiche, la rete promuoverebbe la diffusione e lo sviluppo dell' informazione attraverso un immenso dialogo sociale.
Dunque, Internet rappresenta, non, come sostiene l' ideologia californiana, la suprema esaltazione dell' economia di mercato ma una macroscopica premessa del suo superamento, nel campo dei beni sociali.
Quanto ai beni autenticamente privati il mercato è insostituibile, come rivelatore delle preferenze individuali (ricordiamo la lezione di von Hayek). In tal senso esso costituisce uno strumento prezioso del benessere sociale. Uno strumento, però, non uno scopo. Uno strumento che affianchi l' altrettanto insostituibile presenza dello Stato e quella delle nuove istituzioni associative e volontarie, delle quali Internet è un felice esempio. -

8 settembre 2008

E ora quale blog verrà chiuso?

In Italia, chi si occupa con poteri legislativi o comunque decisionali di Internet, non capisce Internet.

E ora quale blog verrà chiuso?
Di Massimo Mantellini
Fonte: Punto Informatico

Nei giorni scorsi sono state infine rese pubbliche le motivazioni della sentenza di condanna che il giudice di Modica Patricia Di Marco ha inflitto allo storico siciliano Carlo Ruta nello scorso mese di maggio. Il sito web di Ruta, Accadeinsicilia.net, nel quale venivano raccolte testimonianze, appunti e articoli sulla storia recente dell'isola, è stato prima oscurato dalla Polizia Postale di Catania e poi definitivamente chiuso, per il reato di "stampa clandestina". Senza entrare negli aspetti tecnici del dispositivo, commentati nei giorni scorsi da Guido Scorza su queste stesse pagine, vorrei dire che questa sentenza racconta in maniera chiara e puntuale la deriva ideale di questo paese.

Se il giudice di Modica avesse avuto una idea seppur vaga di come Internet abbia in questi ultimi anni mutato lo scenario della comunicazione in tutto il pianeta, forse il suo punto di vista sarebbe stato differente. Perché oggi, secondo la legge alla quale si è fatto riferimento nella sentenza, gran parte della comunicazione in rete potrebbe essere considerata "stampa clandestina". Tutto può a questo punto essere definito in qualche misura clandestino nella rete italiana, qualsiasi manifestazione del pensiero non correttamente bollinata lo è, qualsiasi appunto redatto su un blog, qualsiasi cosa che abiti anche solo pochi secondi dentro la grande rete.

La legge sulla stampa è nata quando ovviamente il mondo era assai differente da quello attuale, ma oggi? Oggi, dopo le "opportune" modifiche del 2001, secondo quella legge quasi ogni cosa sul web è clandestina, per lo meno se scrutata dall'osservatorio minuscolo degli ex padroni della notizia.

Ormai deserte (o quasi) le tipografie, impolverati i ciclostili, annullata dalla presenza di Internet molta della necessaria diffusione fisica delle pagine, il reato di "stampa clandestina" diviene due cose assieme: il patetico déjà-vu dei treni a vapore e la invece concreta e contemporanea minaccia per la libertà di espressione del pensiero da parte di un potere abitato dai soliti figuranti. Politici, giornalisti, grandi editori, grandi aziende in genere, gli unici soggetti che continuano a potersi concedere il lusso di leggi che tutelino i propri privilegi a dispetto di ogni sopravvenuta evidenza.

Alcuni anni fa, quando gran parte del Parlamento votò la modifica alla legge sull'editoria che ha consentito la condanna dello storico siciliano, fummo facili profeti nel sostenere che una simile definizione di "prodotto editoriale" applicata al web era una seria minaccia per la libertà di espressione in rete. Lo scrivevamo nel 2001, non oggi. Ne eravamo talmente convinti che questo quotidiano indisse allora una petizione che raccolse oltre 50mila firme. I firmatari chiedevano che un singolo demenziale articolo di legge venisse modificato, ma nessuno nelle stanze del potere ritenne di prestare attenzione a quel grido di allarme.

Così oggi sinceramente non so bene come commentare il fatto che Giuseppe Giulietti, parlamentare esperto di informazione, ex diessino attualmente all'Italia dei Valori di Antonio di Pietro, abbia presentato una interrogazione parlamentare sul caso di Carlo Ruta parlando di sentenza preoccupante dagli "effetti devastanti in spregio ad ogni regola della democrazia".

Giulietti forse soffre di una qualche grave forma di amnesia, visto che fu proprio lui il relatore della legge che ha portato alla condanna di Ruta. Furono lui e Vannino Chiti - purtroppo lo ricordiamo molto bene - che con qualche fastidio si preoccuparono allora di tranquillizzare le migliaia di persone che in Italia chiedevano a gran voce che una norma nata per finanziare l'editoria sul web non comprendesse all'interno della definizione di "prodotto editoriale" praticamente qualsiasi pagina web.

Oggi Giulietti invece di fare pubblica ammenda e ritirarsi in silenzio in un eremo sperduto, si cala con disinvoltura nei panni di paladino della libertà di espressione, chiedendo al Ministro della Giustizia se non sia vero che "secondo la logica prevalsa, la quasi totalità dei siti web italiani, per il solo fatto di esistere, potrebbero essere considerati fuorilegge, in quanto appunto "stampa clandestina", e ciò - secondo l'interrogante - in spregio a ogni regola della democrazia"

Noi purtroppo abbiamo buona memoria e ricordiamo che ad identica domanda postagli da Punto Informatico nell'aprile del 2001 in quanto relatore di quel contestato progetto di legge che oggi ha portato alla condanna di Carlo Ruta, Giulietti rispose in un piccato comunicato stampa nei seguenti termini:

"La legge sull'editoria non ha mai avuto tra i suoi obiettivi quello di imbrigliare le attività editoriali sulla rete. Sono quindi falsi gli allarmi e le preoccupazioni diffusi in tal senso."

Internet in Italia è clandestina e lo è anche per colpa di questi signori capaci di confezionare norme che nessun paese civilizzato si sogna, per poi pacificamente dimenticarsene. Ma lo è nell'ottica del potere i cui strumenti di controllo ormai hanno esclusiva valenza intimidatoria o dimostrativa. In nessun paese meno che borbonico ci si domanda se un sito web sia aggiornato più o meno regolarmente per determinarne la natura editoriale. In nessuna sperduta landa un giudice monocratico di provincia deve impiegare il proprio tempo per argomentare le differenze fra un quotidiano web e un blog. E non meraviglia che ciò che poi ne esce sia una sentenza dalle motivazioni assurde, ancorché tecnicamente plausibili, grazie, o per colpa, della vaghezza dolosa del legislatore.

Il risultato è comunque sotto i nostri occhi ed apre la strada ad altre prossime iniziative simili: questo paese ha una legge dello Stato capace di chiudere la bocca a chiunque voglia esprimere sul web punti di vista non preventivamente autorizzati. Lo dicevamo sette anni fa, lo ripetiamo oggi.

Internet in Italia è oggi tecnicamente clandestina. Lo sarà fino a quando non scompariranno dalla scena i vari Bonaiuti, Giulietti, Chiti, fino a quando Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi non torneranno alle loro rispettabili professioni, fino al momento in cui non cambierà radicalmente la comprensione dello scenario della nuova informazione mediata da Internet, che in troppi vogliono adattare a forza ad un mondo vecchio che sta scomparendo. Si tratta di sforzi inutili ma ci vorrà altro tempo per capirlo.

Consideriamo benevolmente tutti questi signori come gli attori sul palco di una stagione di mezzo, che prima o poi terminerà. Non vediamo l'ora. Quel giorno tutti noi saremo definitivamente clandestini e così, come per magia, nessuno lo sarà più. Solo allora forse sarà possibile smetterla di vergognarci di abitare in un paese dove per poter liberamente e civilmente esprimere il proprio parere ci sia bisogno dell'avvallo di un professionista iscritto all'albo. Un po' come se per iniziare il mio prossimo respiro dovessi attendere la firma di un pneumologo.

Massimo Mantellini
Manteblog

5 settembre 2008

E-government, la strada è ancora lunga

Fonte: il Sole 24ore

E-government, la strada è ancora lunga
di Giuseppe Caravita

L'internet di massa ha ormai più di dieci anni. Connette più di un europeo su tre, con punte, nei paesi Scandinavi, che superano il 70%. Centinaia di milioni di persone, e di organizzazioni abitualmente la usano per comunicare, informarsi, vendere e comprare, condividere e divertirsi.
Ma meno, molto meno, per superare ostacoli burocratici, per i cosiddetti servizi pubblici online o di e-government.

Nel 1999 l'e-gov era di gran moda. Tutti i governi d'Europa, Usa e Asia lanciavano progetti: l'obbiettivo sembrava a portata di mano, una pubblica amministrazione meno costosa, servizi più accessibili, tempo e denaro risparmiato dai cittadini. Non è andata così: l'e-gov, un po' ovunque nel mondo, ha deluso tutti. Certo, con qualche eccezione (anche europea), ma questo filone di internet è rimasto il fanalino di coda della rete, agli ultimi posti nelle statistiche d'uso. Perché?
I ricercatori informatici convenuti in questi giorni a Torino alla Dexa 2008 questo problema, tra le righe, se lo stanno ponendo. Per esempio Jorg Becker e Bjorn Niehaves che, per conto del Governo tedesco, hanno sviluppato un'indagine sull'effettivo uso dei servizi pubblici in rete. Risultato: pur nella grande Germania, perno d'Europa, con il 45% di popolazione stabilmente connessa alla rete, l'uso dei servizi di e-government non supera il 20%, di cui l'11% per semplici informazioni e solo il 9% per servizi transattivi completi. Per contro, in Italia, le cifre, rilevate da Accenture, appaiono dimezzate: 30% di italiani online, di questi solo l'8% utenti abituali dei servizi pubblici informativi e solo il 3% dei pochi transattivi completi.
A confronto il 60% degli utenti internet tedeschi usa abitualmente le pagine di Wikipedia, il 30% fa e-commerce, e una percentuale analoga condivide files (legalmente o meno) sui circuiti peer-to-peer.

E' un gap che si riduce solo nei paesi scandinavi, in Olanda (dover un servizio di autenticazione nazionale, base dell'e-gov, è attivo e ampiamente usato) in Austria e in Estonia, campione europeo grazie a un'agenzia pubblica dedicata e a un massiccio programma di marketing dei servizi.
Per il resto regna la delusione. Le nuove carte digitali vengono usate, nel caso spagnolo, tedesco e anche austriaco, prevalentemente come sostituti plastificati dei vecchi documenti cartacei. E solo in piccoli numeri come sistemi di autenticazione sul Web. La firma digitale stenta a decollare, un po' ovunque.

Che fare? I punti chiave che emergono dalla quattro giorni di Dexa 2008 paiono tre: organizzazione, incentivi, apertura.
Laddove hanno potuto operare agenzie pubbliche realmente motivate e focalizzate sullo sviluppo dei servizi i risultati si sono visti. Non solo in Estonia, ma anche in Austria, Olanda e persino in Italia. Qui per esempio vale il caso del più antico operatore di servizi pubblici online italiano, il Csi Piemonte, che, unico nel Paese, è riuscito a diffondere a centinaia di piccoli comuni della regione i suoi servizi, grazie anche a finanziamenti centrali che hanno reso l'operazione a costo zero. In pratica il Csi Piemonte funziona da centro servizi anche per la Liguria e la Val d'Aosta. E dispone, già rodato da anni, di un sistema di autenticazione (cruciale per l'e-gov evoluto) che potrebbe essere rapidamente diffuso a livello nazionale.

Secondo: incentivi. Quando i piccoli comuni piemontesi si sono accorti che, con i nuovi piani governativi, l'adozione dei servizi telematici sarebbe stata di fatto gratuita li hanno adottati. E in Italia la dichiarazione dei redditi online (forse l'unica vera bandiera dell'e-government italiano) viene usata da centinaia di migliaia di commercialisti, patronati e altri intermediari per ridurre sostanzialmente i propri costi operativi.

Terzo: apertura. La comunità europea da tempo (anche qui tra le righe) si è resa conto del fallimento sostanziale dell'e-government. Servizi complicati, portali astrusi e ricalcati sulle precedenti procedure burocratiche, mai verificati con gli utenti, costruiti più per salvaguardare le amministrazioni che per risolvere i problemi della gente. Un esempio. La ricerca tedesca mostra tre gruppi di esclusi dalla rete: anziani, piccoli paesi rurali, disoccupati. I primi lamentano la complicazione della burocrazia online, i secondi la scarsità di collegamenti a larga banda, e i terzi sembrano refrattari a ogni forma di internet. Però, quando si tratta di accedere ai servizi informativi federali sui posti di lavoro disponibili, ecco che la media d'uso di questi "disconnessi" balza al 110% sulla media nazionale. Sintomo di un fenomeno già notato sulla rete: quando un servizio colpisce realmente un problema civico reale, e vitale, non c'è digital divide che tenga. «Vanno negli uffici federali a consultare internet per le offerte di lavoro – osserva Niehaves».

E così per siti civici pubblici creati spontaneamente negli ultimi mesi, come CrimeChicago (una comunità che si scambia informazione sui posti più o meno sicuri della città) oppure "Rate Your Doctor", sito australiano (e inglese) che indica, a suon di esperienze reali, i medici e gli ospedali migliori, o da evitare.
Il cosiddetto Web 2.0 (ovvero l'internet partecipata dei Blog, dei Wiki e dei web scritti a più mani) sta rapidamente approdando ai problemi civici vitali e di ogni giorno (cosa diversa dai servizi pubblici) e una ricercatore italiano, David Osimo, ne ha recentemente censiti un centinaio, per le nuove strategie di ricerca della Commissione Ue.
E poi il connubio pubblico-privato. «Negli Usa stanno nascendo startup come la Nic che offrono gratuitamente alle Amministrazioni servizi di e-government -spiega Enrico Ferro del Politecnico di Torino- salvo riservarsi piccole fees su alcuni servizi più complessi. E solo con queste si ripagano le attività e fanno profitti».

Modelli di business di questo tipo se ne possono inventare diversi. Forse con l'annunciato federalismo fiscale anche le Amministrazioni locali italiane potrebbero porsi il problema di far rendere realmente l'e-government, sia in termini di minori costi interni che di ricavi aggiuntivi. Mettendo in moto un circolo virtuoso di investimenti. Aprendosi, magari tramite reali e provati specialisti, alla cooperazione con nuovi intermediari e, soprattutto, con gli utenti. Di quelli che hanno bisogno di un cambio di residenza veloce, di sapere se c'è lavoro, di una cura di qualità per una malattia grave di un familiare.