31 maggio 2010

Critica dell’automobile


Daniel Cohn-Bendit, europarlamentare verde e leader di Europe écologie, propone nel suo ultimo lavoro “Osare di più” riflessioni sul futuro della politica e sull’economia ecologica. Avanzando proposte radicali.
"Osare di più. Morte e rinascita della politica” è l’ultima fatica  di Daniel Cohn-Bendit, in uscita per i tipi “I libri necessari” della neonata “edizioni dell’Asino”, un progetto editoriale frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero con la partnerschip di Redattore Sociale. Ne pubblichiamo una anticipazione con la cortese autorizzazione dell’editore. E’ possibile acquistare il libro anche dal sito www.asinoedizioni.it La sintesi del testo che segue - a cura di Gianpaolo Silvestri - è parte del capitolo “Per una nuova ecologia politica” raccolto da Giulio Marcon e rivisto dall’autore. 
Innanzitutto dobbiamo ricordare un dato fondamentale, da cui partire: oggi abbiamo raggiunto un livello impressionante di sovrapproduzione dell’automobile. Per l’Unione Europea la produzione di automobili è certamente un fatto importante: in Europa si concentra quasi il 35% della produzione automobilistica mondiale. Ogni anno si producono più di 19 milioni di automobili e l’industria automobilistica coinvolge oltre 12 milioni di famiglie. È un fatto importante. C’è un però. C’è una crisi di sovrapproduzione. ..Produciamo molte più automobili di quelle di cui abbiamo bisogno: questo il dato di fatto. Perciò, non è vero che oggi sia possibile salvare contemporaneamente le industrie della Fiat, dell’Opel, della Peugeot, della Mercedes e altre ancora…Oggi abbiamo una sovrapproduzione del 30% di automobili in Europa: non è possibile mantenere questi livelli di produzione e non è possibile salvare contemporaneamente tutte le fabbriche di automobili europee. È impensabile, a meno che di non mettere in campo una politica assistenzialista di stato per la produzione di merci di cui non abbiamo bisogno e che fanno male al nostro ambiente. Il tutto a carico dei cittadini.
Ma, purtroppo, il discorso economico prevalente sull’automobile nella sinistra tradizionale e nella destra è sempre lo stesso: bisogna salvare l’industria automobilistica, è necessario rilanciarla e svilupparla, bisogna dare nuovi e sempre più consistenti incentivi, eccetera. È un discorso vecchio e sbagliato; ed è lo stesso discorso che si faceva vent’anni fa sulla siderurgia, di fronte alla crisi evidente di una produzione che – oltre a essere dannosa per l’ambiente – era condannata a essere ridotta e limitata…Si trattava di un settore produttivo indifendibile: si è tentato l’impossibile, sono stati spesi un sacco di soldi e l’obiettivo non è stato raggiunto. Lo stesso discorso si può fare per l’industria automobilistica. Dobbiamo avere il coraggio di dire a tutti noi, alla politica, alle imprese, ai sindacati, ai lavoratori, alla società: l’era dell’automobile è finita e dobbiamo pensare a come gestire la sua riduzione e limitazione, non a come salvarla e rilanciarla. Dobbiamo porre fine a questa illusione e all’idea che si possa rilanciare l’economia attraverso la produzione automobilistica, un settore produttivo che non ha futuro. Dobbiamo chiedere alla politica europea di assumersi la responsabilità di un nuovo modello di sviluppo e di una nuova mobilità che non sia più fondata sull’uso privato dell’automobile. In questo senso sarebbe necessario creare una sorta di Agenzia europea per la trasformazione dell’economia e utilizzare il Fondo europeo per lo sviluppo regionale per favorire iniziative di riconversione e cambiamento delle produzioni. Perché più in generale dobbiamo essere consapevoli che una parte della attività industriale (oltre alla siderurgia e a quella automobilistica) del’900 è condannata inesorabilmente a scomparire. Per questo dobbiamo essere in grado di anticipare il più possibile i tempi, evitando un assistenzialismo che non serve a nulla, e avere il coraggio di investire in altre produzioni, compatibili con la crisi ecologica che stiamo vivendo.
Giustamente si dice che tra qualche anno, quando tutte le famiglie cinesi e indiane avranno una automobile, o più di una come succede da noi, (e anche magari un condizionatore d’aria, un frigorifero, una lavatrice, una lavastoviglie, eccetera) il nostro mondo andrà in rovina: l’inquinamento sarà insostenibile e il consumo di energia oltre ogni livello accettabile. Ma c’è una considerazione in più da fare, ed è questa. Se pensiamo che questa richiesta di beni dei cinesi e degli indiani possa essere soddisfatta dalle nostre industrie, ci illudiamo. I cinesi e gli indiani non compreranno certo le nostre automobili, se non in minima misura, perché se le produrranno – e già se le producono – nel loro paese con le loro industrie (e naturalmente a prezzi inferiori dei nostri). È un’illusione che i nostri mercati e le nostre industrie (e questo vale anche per gli altri settori produttivi) possano produrre per la Cina, per la l’India e magari anche per la luna. Questa è – appunto – una pura illusione, generata da una visione economica, quella del produttivismo illimitato, che non ha alcun futuro nel mondo globalizzato.
Analizziamo ad esempio le misure – come la rottamazione – che molti paesi europei hanno preso in questi mesi per far fronte alla crisi dell’automobile: una misura che alcuni di questi paesi prendono in realtà normalmente, anche in periodi in cui non c’è crisi economica. Si tratta di una misura assistenzialistica, ormai, ordinaria e continuativa. La rottamazione è una misura inutile e dannosa. È una misura che non serve a nulla. È una boccata d’ossigeno per un sistema economico e produttivo insostenibile e che non ha futuro. Lo stato dà questi soldi per niente, sono soldi buttati al vento…. 
Per dare un futuro all’industria automobilistica – per farla sopravvivere ancora per un po’ – l’unico modo sarebbe quello di costringere le persone a cambiare sempre più velocemente la vecchia macchina con una nuova: oggi, magari, cambiandola ogni tre-quattro anni, e poi domani ogni due, e dopodomani una volta l’anno. Ma questa è una vera follia e ci porterà al disastro ecologico e sociale. È vero che nel’900 l’automobile è stata un simbolo di modernizzazione, di stile di vita, anche di libertà e di democrazia, di avanzamento ed emancipazione sociale, ma oggi non è più così. Dobbiamo avere il coraggio di dire alle persone: è ora di cambiare totalmente e radicalmente il sistema della mobilità esistente. Quello dello sviluppo illimitato della produzione delle automobili ci porta al disastro ambientale e sociale. Il futuro non è dell’automobile... 
Dobbiamo porre fine a un sistema della mobilità fondato sull’automobile privata e a un modello di sviluppo economico fondato sulla produzione di automobili. Le automobili vanno certamente rottamate, ma definitivamente, non per farne delle altre.

Fonte: Terra

25 maggio 2010

La privacy a scuola

E' stato pubblicato sul sito del Garante per la Protezione dei dati personali www.garanteprivacy.it il vademecum "La Privacy tra i banchi di scuola", un opuscolo in .pdf abbellito graficamente e dal linguaggio abbastanza chiaro e sintetico (non si tratta della solita circolare ministeriale, per capirci). Provate questo link, oppure cercatela sul sito governativo.

Traccio giusto uno spunto, ma l'argomento della privacy a scuola meriterebbe ben più profonde e articolate riflessioni: a me sembra di imbattermi in un contraddizione, o per meglio dire un "doppio legame" di batesoniana memoria, nel modo in cui si allestisce complessivamente la comunicazione su queste tematiche.
Mi ricorda quando il genitore urla "non bisogna picchiare gli altri" rifilando una sberla al figlio, oppure quando si attuano campagne sociali per la "purezza della razza padana" e le classi scolastiche sono invece tutte bianche e nere come le scacchiere e i pianoforti, come quando il bambino vede che si applicano due pesi e due misure, come quando i messaggi che giungono da varie fonti non fotografano bene la realtà e si comprende la distanza abissale che intercorre tra il mondo com'è, come lo vediamo,  e come vorremmo che fosse, come lo raccontiamo.

Perché l'opuscolo del Garante della Privacy per la scuola mi sembra piuttosto normativo, certo intriso di buon senso; le limitazioni alla pubblicazione di documenti scolastici, di momenti di vita sociale, di opere didattiche sono abbastanza stringenti.
Mentre il mondo sta vivendo una metamorfosi dei propri valori etici, riguardo l'accettazione sociale dei comportamenti "esibizionistici" delle persone nei Luoghi digitali.
Tra l'altro, la stessa morale puritana che mi porta a definire "esibizionistica" o impudica la narrazione di sé a cui siamo quotidianamente chiamati a giocare grazie all'esplosione di ambienti digitali personali o sociali (blog o socialnetwork), suona oggi anacronistica, decisamente non adeguata a giudicare.
Fino a vent'anni fa giudicavo le persone incontrandole per strada, dai loro vestiti e dalla loro automobile, dallo stile dei gesti nell'atteggiarsi in pubblico, dalla profondità del loro ragionare in quei rari casi (solo migliaia) in cui alcune di queste persone riuscivano ad accedere a giornali, editoria, cinema, televisione, diventando scrittori o giornalisti o registi e quindi riuscivano a moltiplicare la risonanza del loro pensiero grazie ai supporti tradizionali che storicamente sostengono la cultura umana.
Oggi in milioni diventiamo editori di noi stessi, ognuno di noi può allestire la propria vita pubblica negli ambienti digitali, pubblicando articoli e saggi e opere d'arte e barzellette sciocche. Con la stessa potenza mediatica una volta riservata a realtà imprenditoriali strutturate, oggi riusciamo a arredare gli spazi della conversazione pubblica, dando immagine di noi e costruendo nel tempo, come linea di facce o memoria degli atteggiamenti, la nostra identità digitale.
Il mondo tutto di oggi ci chiama a mettere in scena noi stessi, a raccontarci, a scambiare opinioni e giudizi gli uni con altri, a partecipare alla conversazione, perché sotto c'è un'altra morale rispetto a quella puritana del nascondere tutto, e oggi la trasparenza, la condivisione delle conoscenze e l'agire collettivo sono molto più facili tecnicamente e apprezzati eticamente.

Oggi sono abituato a, mi aspetto, voglio che l'Azienda o il Comune o la Scuola comunichino molto. Gli individui possono giocare con la loro identità, mettere in scena sé stessi sbagliando o innovando (e tutto concorre a ridefinire e modernizzare quei concetti e valori socialmenti accettati di "esibizione" di sé suddetti, oggi in rapido mutamento), la Scuola deve in quanto pubblica rendere trasparente sé stessa, deve permettermi di conoscerla, deve abitare la conversazione sociale contribuendo con il suo discorso di attore sociale istituzionale alla costruzione collettiva e collaborativa del senso e delle pratiche di una buona Cittadinanza.

Perché la Scuola insegna la Cittadinanza, a fare e a essere cittadini, e lei stessa non può, pena una contraddizione nel suo stesso dire, rifiutarsi di partecipare alla vita sociale, consegnare e educare le giovani generazioni al "silenzio mediatico" quando quegli stessi ragazzi su Facebook o nelle loro pratiche comunitative quotidiane vivono una situazione ben diversa, e capiscono subito che come al solito la Scuola è inattendibile perché ancorata ai valori obsoleti di forme di socialità che non abitano più nei nostri tempi, una scuola scollata dalla realtà concreta (non puoi dilungarti sul Risorgimento e tralasciare la Guerra del Golfo e il Muro di Berlino, non puoi non raccontare cosa sono la televisione e il web e quello che abbiamo intorno, crisi e conomica e ambientale e culturale).

Un ragazzino nell'adolescenza alza lo sguardo, si confronta con la socialità ampia dei gruppi e della collettività, e il messaggio contradditorio che gli arriva è quello di un mondo adulto che a voce parla di regole e proibizioni e censure e norme, mentre negli atteggiamenti e nei comportamenti, ovvero nel vivace calderone della socialità mediatica oggi moltiplicata e universalizzata dalle tecnologie connettive, ci sguazza contento, com'è giusto che sia secondo i nuovi valori sociali orientati alla visibilità pubblica del proprio abitare.

Quindi, ben vengano i manuali governativi di privacy, quando la loro funzione storica è pur sempre indicare a negativo la devianza, quei comportamenti individuali e sociali che danneggiano la persona o gli altri: imparo cosa posso fare studiando cosa non posso fare.
Ma il discorso complessivo della Scuola riguardo la privacy dovrebbe essere al contrario orientato a praticare l'espressione di sé, a progettare la propria postura comunicativa e quindi identitaria negli spazi pubblici della conversazione collettiva, e dal fare concreto con gli altri ricavare quella consapevolezza del proprio dire (consapevolezza della distinzione tra personale e pubblico, quindi privacy) da trasformare in posizione etica, per innervare la propria missione educativa.